L’asana di febbraio: il Cavallo

Il programma Yoga 2025 del Centro Culturale Ray prosegue nel mese di febbraio con una posizione dinamica ed elegante, come l’animale che rappresenta,

Nell’induismo il cavallo è un simbolo ancestrale, che ha significati elaborati e stratificati nel tempo. Le tracce più antiche e magnificenti sono nei Veda. Uno dei più importanti riti descritti in questi testi, realizzabile esclusivamente da un re, era infatti il sacrificio del cavallo ossia l’aśvamedha, Fu usato dagli antichi re indiani per dimostrare la sovranità sul loro impero: un cavallo accompagnato dai guerrieri del re sarebbe stato rilasciato per vagare per un periodo di un anno. Nel territorio attraversato dal cavallo, qualsiasi rivale poteva contestare l’autorità del re sfidando i guerrieri che l’accompagnavano. Dopo un anno, se nessun nemico fosse riuscito a uccidere o catturare il cavallo, l’animale sarebbe stato ricondotto nella capitale del re. Sarebbe quindi stato sacrificato e il re sarebbe stato dichiarato sovrano indiscusso.


Nel pantheon indiano Hayagrīva è un avatar di Viṣṇṣu, adorato come il dio della conoscenza e saggezza, con un corpo umano e una testa di cavallo, di un bianco brillante, con abiti bianchi e seduto su un loto bianco. Simbolicamente, la sua storia rappresenta il trionfo della pura conoscenza, guidata dalla mano divina, sulle forze demoniache della passione e dell’oscurità. Secondo la leggenda, durante il periodo della creazione, due demoni Madhu e Kaiṭabhaṭ rubarono i Veda a Brahmā e Viṣṇṣu assunse la forma di Hayagrīva per recuperarli.


Il cavallo è anche il simbolo di divinità luminose, in particolare del Sole. E’ un simbolo naturale di potenza, in
particolare la testa di cavallo è simbolo di sacralità e conoscenza. Nell’antica mitologia vedica gli Aśvin, Nasatya e Dasra, i gemelli dalla testa di cavallo, erano i dottori del genere umano, soprattutto dei guerrieri feriti in battaglia, come pure i dottori degli dei.

Il mito

Si racconta che il dio del Sole, Sūrya, convolò a nozze con l’altrettanto divina Saṃjñā, la celestiale figlia di Viśvakarmā, l’Architetto dell’Universo. I due si stabilirono nella dorata dimora di lui. Ogni mattina all’alba Sūrya partiva per andare al lavoro alla guida di un carro trainato da sette destrieri e ritornava al tramonto, sempre ardente di desiderio per la giovane moglie. Saṃjñā lo amava con eguale intensità, ma con il passare del tempo non non riuscì più a sopportare il violento splendore del marito.

Usando un mantra creò una copia di se stessa di nome Chāyā, che significa ombra, le insegnò a comportarsi come lei e poi si rifugiò nella foresta con le sembianze di una giumenta. Ma Sūrya cominciò a insospettirsi e costrinse Chāyā a rivelargli la verità, dopodiché si precipitò a casa del suocero alla ricerca della moglie. Viśvakarmā era fortunatamente un individuo saggio e seppe trovare le parole giuste per calmarlo: la sua irradiante potenza era tale, gli disse, da risultare spiacevole se ricevuta con troppa frequenza da una distanza ravvicinata, come biasimare Saṃjñā se si era allontanata da lui per questo! Ma che Sūrya si rassicurasse: la sua sposa gli era rimasta fedele, ed ora viveva nella foresta.

Il Sole allora, usando il suo occhio yogico, scorse la moglie che, sotto forma di giumenta, vagava tristemente nella foresta. Per riuscire a ricongiungersi con la sua amata Saṃjñā chiese al suocero di mitigare il suo fulgore, Viśvakarm si mise all’opera, pose il Sole sulla mola e tolse un’ottavo dei suoi raggi e li usò per forgiare il disco di Viṣṇṣu, il tridente di Śiva , la mazza di Kubera, la lancia di Karttikeya e le armi degli altri dei. Allora Sūrya si trasformò in cavallo e raggiunse la moglie.

Dall’unione ritrovata nacquero due gemelli con la testa di cavallo, gli Aśvin e, dal momento che il marito aveva mitigato il suo fulgore, Saṃjñā tornò a casa.

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L’asana di gennaio: Candra, equilibrio tra terra e cielo

Buon 2025 a tutti! Il nuovo anno al Centro Ray inizia fulgido e splendente sotto il segno di Candra, che illumina le nostre notti e ci inebria con la sua luce. Sarà questo l’asana di gennaio, che ci accompagnerà nel mese più freddo e buio dell’anno.

Candra è infatti la personificazione della Luna, il cui nome deriva appunto dal sanscrito scandra, che significa “splendente, fulgido”. Per la sua brillantezza venne paragonato all’oro, a una favilla che arde nel cielo o anche a una coppa traboccante di latte o di pioggia.
Tra le idee cosmologiche più diffuse dell’antico Oriente è quella di un oceano luminoso al di là della volta celeste. Secondo un’antica concezione, gli astri erano dei buchi nel manto celeste, attraverso i quali la luce penetrava nel mondo degli umani.
Ma la luna aveva inoltre una funzione specifica, spesso documentata nella letteratura vedica: quella di generare la pioggia, proveniente dall’oceano celeste. La luna, quindi, è considerata il reggente delle acque e nella mitologia indiana, il Soma viene identificato con la luna. Il Soma era la bevanda inebriante, l’elisir di vita donatore di immortalità, l’ambrosia degli dei amṛtaṛ, che rendeva l’uomo capace di grandi imprese. La luna è vista come il calice della bevanda divina tanto che Soma è il nome frequentemente usato per la luna.

Il mito

Il dio della luna, Candra, affascinante e pieno di luce, vagava per i cieli sul suo carro trainato da un’antilope.
Quando giunse in età da matrimonio si recò da Dakṣaṣ che era in cerca di pretendenti per le sue ventisette
figlie, le ragazze rimasero colpite dal fascino di Candra tanto che ognuna di loro voleva sposarlo. Allora
Dakṣaṣ chiese a Candra di indicare la sua preferita, ma quello rispose che voleva sposarle tutte. Dietro insistenza delle figlie, Dakṣaṣ acconsentì ma fece promettere a Candra che avrebbe avuto le stesse attenzioni per tutte senza trascurarne nessuna, trascorrendo a turno, una notte con ciascuna. Ma quando venne il turno di Rohini, la più giovane e bella, Candra se ne innamorò così tanto che dimenticò tutte le altre. Tutte le sorelle di Rohini andarono a lamentarsi dal padre il quale richiamò Candra alle sue responsabilità e soprattutto alla sua promessa. Ma Candra non volle sentir ragione e allora Dakṣaṣ lo condannò alla consunzione. Giorno dopo giorno Candra cominciò a perdere il suo fulgore, non riusciva più a mangiare e passava tutto il giorno a letto sperando solo di morire. Le mogli, provando tristezza e compassione per la sua condizione, chiesero al padre di annullare la maledizione.

Dakṣaṣ disse che non poteva eliminarla, ma solo modificarla e così fu; per quindici giorni Candra ritornò a splendere diventando sempre più luminoso per poi perdere la luminosità per altri quindici giorni. E da allora la luna cresce e cala nel cielo.

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HANUMAN: la forza, il coraggio, l’autodisciplina

Fede, possibilità, impegno, saggezza, resistenza: saranno queste le parole chiave che ci accompagneranno durante tutto il mese di dicembre nella nuova pratica Yoga dedicata al dio Hanuman.

Il dio del coraggio, della forza e dell’autodisciplina

Hanuman ha un ruolo centrale nel Rāmāyaṇa il grande poema indiano che si ritiene sia stato scritto nel III secolo a.C..

Hanuman era figlio di una apsaras, ovvero di ninfa, di nome Puñjikasthalā, che a causa di una maledizione rinacque come vanara (donna scimmia) assumendo il nome di Añjanā. La maledizione si sarebbe sciolta solo se avesse partorito un’incarnazione del dio Śiva. Allora Añjanā pregò intensamente Śiva che, colpito da tanta devozione, decise di esaudire il suo desiderio.

Accadde che re Dasaratha celebrò un sacrificio per avere figli e il suo desiderio fu esaudito. Ricevette in dono dagli dei un budino particolare da dividere fra le sue mogli che così generarono Rāma, Lakṣmaṇā, Bhārata e Śatrughna. Una porzione del magico budino però fu presa da Vayu, il dio del vento, che la portò ad Añjanā. Fu così che dopo averlo mangiato Añjanā, diede vita a Hanumān.

Hanuman nacque quindi come vanara, uomo scimmia. Una volta nato Hanuman si dimostrò subito vivace, vorace e curioso tanto che, pensando che il sole potesse essere un frutto, cercò di coglierlo per mangiarlo. Il dio Indra, infuriato per quel gesto, colpì Hanuman con un fulmine scagliandolo a terra e rompendogli la mandibola. Da qui il nome Hanuman, da hanu che in sanscrito significa mascella. Vayu, padre putativo del piccolo, si infuriò e smise di soffiare privando il mondo dell’aria necessaria. Per sanare l’offesa gli dei offrirono doni a Hanuman rendendolo sempre più forte e invincibile, Indra annullò gli effetti del fulmine e allora Vāyu riprese a soffiare.

Hanuman e Rāma

Hanuman incontrò Rāma mentre questi era in esilio, e con il fratello Lakṣmaṇā era alla ricerca di sua moglie Sita, rapita dal re Rākṣasa Rāvaṇa. La loro ricerca li aveva portati nelle vicinanze della montagna Rşyamūka, dove Sugrīva, con i suoi seguaci e amici, si stava nascondendo da suo fratello maggiore Vali, il re vanara che, a causa di una grave incomprensione, lo aveva bandito dal regno, e aveva trattenuto sua moglie come prigioniera nel suo palazzo.

Vedendo arrivare Rāma e Lakṣmaṇā, Sugrīva mandò Hanuman ad accertarsi delle loro identità. Hanuman avvicinò i due fratelli travestito da bramino e le sue prime parole furono così convincenti che Rāma disse a Lakṣmaṇā che nessuno avrebbe potuto parlare in quel modo senza aver padroneggiato i Veda. Quando Rāma rivelò la sua identità, Hanuman gli si prostrò dinanzi e Rāma lo abbracciò caldamente. In seguito, la vita di Hanuman sarebbe stata inestricabilmente legata a quella di Rāma. Hanuman fu artefice di un’amicizia e alleanza tra Rama e Sugrīva, quest’ultimo, grazie all’aiuto di Rāma riguadagnò il suo regno e poi, con Hanuman e il suo esercito di vanara, aiutò Rāma a sconfiggere Rāvaṇa e riabbracciare Sita.

Il quinto libro del Rāmāyaṇa si concentra particolarmente sulle gesta di Hanuman. Eccone alcune:
Nella loro ricerca per Sita, un gruppo di vanara raggiunse le rive del mare del Sud e dinanzi al vasto oceano, cominciarono a lamentarsi di non poter superare l’ostacolo, Hanuman allora ingigantì il suo corpo e attraversò in volo l’oceano arrivando sull’isola di Larkā dove trovò Sita, le rivelò la sua vera identità, rassicurandola e confortandola, ed elevò il suo spirito.


Durante la guerra, quando Lakṣmaṇā fu severamente ferito, Hanuman fu inviato a cogliere il sanjeevani, una potente erba medicinale, per curarlo, ma non riuscì a identificare l’erba, così sollevò l’intera montagna Dronagiri e la portò a Rāma che lo abbracciò, dicendo che Hanuman gli era caro quanto il suo amato fratello.

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